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Il recruiting collaborativo è una novità sul mercato italiano. Ecco come e perché R-Everse si è posizionata così facilmente nel bel paese.

Oggi, nel 2020, fare recruiting non significa solo saper scegliere il candidato più competente. Il processo di selezione si è evoluto nel tempo e richiede una serie di accorgimenti, mai presi in considerazione finora. Ecco perché, in questo scenario così complesso, anche i cacciatori di teste, hanno dovuto adattarsi al cambiamento, rivedendo sia il loro modo di selezionare il personale, che di posizionarsi sul mercato. Ci siamo fatti raccontare questa nuovo mondo da Beatrice Böhm, marketing manager di R-Everse, giovane SPA che opera nel settore del recruiting collaborativo.

Essere una delle agenzie partner di HubSpot ci permette di conoscere tante realtà e tante persone da rendere il nostro lavoro un canale per il confronto quotidiano. È così, con una consulenza HubSpot, che abbiamo conosciuto R-Everse, una giovane SPA operativa nel settore della ricerca e selezione del personale.

A rendere particolare R-Everse, però, è il servizio offerto: il recruiting collaborativo. L’azienda mette a disposizione di ogni cliente un team specializzato composto da un recruiter e uno scout con esperienza comprovata nel dipartimento che poi impiegherà la risorsa.

Supponiamo che tu stia cercando un addetto marketing, ad aiutare il recruiter sarà un CMO, ovvero una persona che lavora tutti i giorni nel settore e perciò con maggiore capacità di analizzare sia le hard-skill che le soft-skill del candidato.

R-Everse ha obiettivi ambiziosi e internazionali per il prossimo triennio: in Italia è piena in fase di scaling up e quindi vuole consolidare il brand, continuando a crescere; inoltre, sta muovendo anche i primi passi in Germania, dov’è in fase di startup e quindi mira ad affermarsi nel settore.

 

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È in questo scenario effervescente che R-Everse ha voluto scegliere una metodologia di marketing innovativa: l’inbound. A seguire la campagna è appunto Beatrice Böhm, responsabile marketing con un passato da imprenditrice digitale e in agenzia di marketing. È con lei che abbiamo parlato , facendoci spiegare gli insight di settore, raccontare i retroscena di R-Everse e la sua esperienza a contatto con l’inbound, oltre che HubSpot.

Partiamo un po’ dallo scenario generale. Com’è cambiato il processo di selezione delle aziende negli ultimi dieci anni? Siamo davvero pronti per fare social recruiting? Quali sono le best-practice che un’azienda dovrebbe mettere in conto di seguire per fare social recruiting?
Come molti settori anche il recruiting è stato profondamente toccato dalla diffusione dei social network, ma noi dobbiamo avere qualche attenzione in più poiché abbiamo a che fare non con prodotti ma con persone. Ogni candidato che cerca un nuovo lavoro vive un momento molto delicato, e ogni azienda che assume deve valutare al meglio l’investimento, perché sia ottimale sia per l’azienda che per il candidato. In questo scenario dobbiamo muoverci online in maniera oculata, non per forza tradizionale o poco innovativa ma certamente molto attenta.

 

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Ovviamente, non è importante solo trovare i candidati giusti. È fondamentale anche coinvolgerli nella vita aziendale di tutti i giorni, formarli e farli crescere all’interno dell’impresa stessa. È inoltre importante creare il clima giusto offrendo soprattutto politiche di lavoro agile. Dello smart working recentemente, a causa del Corona Virus, s’è parlato moltissimo, ma qual è il reale stato dell’arte? Le aziende sono pronte? Quali potrebbero essere i primi passi da muovere in questa direzione, che di fatto rappresenta il presente e il futuro? (Avete politiche di smart working? Se sì ce le racconti? Come sta funzionando?)
In queste settimane si sono trovate a lavorare in smart working molte realtà che non erano affatto preparate, poiché in Italia non è ancora molto diffuso. Personalmente credo che sia un’arma in più di cui le aziende possono dotarsi, ma senza abusarne. Non tutti i lavori infatti sono adatti, e non tutti i lavoratori lo apprezzano. Noi lo applichiamo molto e con ottimi risultati, ma serve una specifica importante: smart working non significa solo lavorare da casa, ma lavorare in modo, appunto, smart, ovvero una modalità molto diversa da quella tradizionale: obiettivi, orari, leadership, lavoro in team, tutto viene gestito in maniera diversa, e il passaggio a tutto ciò non è banale.

Diversity e inclusion sono due dei temi più sentiti dalle aziende al giorno d’oggi, nelle HR. In base alla tua esperienza puoi confermare questo trend? Da marketer, secondo te, quali sono le reali opportunità che un business ha per comunicare queste politiche? Quanto possono essere utili in tal senso gli strumenti digitali per farlo?
Gli strumenti digitali possono essere fondamentali per un’azienda attenta a queste tematiche soprattutto in fase di talent acquisition: i candidati sono sempre più informati, non si candidano più a qualunque posizione in linea ma valutano attentamente quali aziende ritengono valide per la propria crescita. In un certo senso si sono invertiti i ruoli e oggi sono i candidati a scegliere l’azienda. Quindi è importante comunicare all’esterno quali sono le politiche aziendali più interessanti, e una collaborazione sempre più stretta tra reparto HR e marketing aiuterà moltissimo.

 

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Cambiamo discorso, parliamo un po’ di R-Everse. Voi avete scelto di fare inbound marketing con HubSpot come strumento di gestione delle vostre campagne. Come mai questa scelta?
La scelta dell’inbound e di Hubspot si è inserita in una strategia digital piuttosto ampia, e credo questo sia l’unico modo perché l’inbound funzioni: includerlo in un piano di attività a medio termine che coprono tutto il percorso d’acquisto, con diversi test in corso d’opera. Se si ha questo scenario allora è un’attività utilissima, che richiede parecchio effort ma rende molto bene in termini di risultati.

A tal proposito, quali erano i goal di progetto che vi eravate prefissati e quali gli obiettivi raggiunti?
Fino ad ora abbiamo lavorato principalmente in awareness per far conoscere il nostro brand al nostro target, informarlo e porci come punto di riferimento per il settore. È stato un lavoro piuttosto duro perché nei primi tempi sembra non portare risultati, ma dopo qualche tempo si è svelata tutta l’utilità dell’iniziativa e le vendite sono aumentate, sia in quantità che in qualità.

E sta funzionando? Com’è cambiata la percezione della marca?
Ti rispondo con un esempio concreto: una nostra commerciale è stata ricevuta da un prospect molto importante con queste parole: “R-Everse, la vostra fama vi precede!”. Se pensi che siamo una realtà molto giovane è un gran successo.

 

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Il bello, e il buono dell’inbound, però è anche la possibilità di fare lead-generation. Parliamo di lead-generation. Siete soddisfatti? Consigliereste ai vostri clienti di scegliere la metodologia inbound?
Sì assolutamente, a patto di avere tempo e risorse sufficienti per la preparazione del materiale. Scrivere articoli sui temi più caldi senza essere banali, proporre indagini, interviste e approfondimenti, girare dei video: tutto ciò richiede un effort notevole, che va previsto ed organizzato.

E per quanto riguarda HubSpot?
Credo sia una piattaforma di alto livello che può fare la differenza per chi, come dicevo prima, ha intenzione di mettere in piedi un progetto di inbound serio e strutturato, non delle attività spot.

Without data you’re just another person with an opinion”. È questa la tua copertina su LinkedIn, una citazione di Edward Deming, manager statunitense che ci dovrebbe far riflettere molto. Quanto influiscono nella gestione di R-Everse i dati? Quanto tempo dedicate all’analisi mensilmente?
Quando fai sempre marketing online e poi ti trovi a gestire una campagna offline ti sembra assurdo non sapere chi l’ha vista, quando, come ha interagito, cosa ha visto dopo! I dati ti consentono di conoscere e gestire tutto ciò, ma i dati stessi richiedono una gestione affatto semplice. Noi ci siamo strutturati in maniera quasi eccessiva per le prime attività, ma abbiamo ritenuto corretto preparare il terreno prima di cominciare a raccogliere dati, invece di tracciare tutto per mesi, come fanno molti, e poi trovarsi un’enorme mole di dati che nessuno è in grado di gestire e comprendere. Tornando indietro rifarei assolutamente così.

 

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